Abstract Il caso La vicenda trae origine dalla notifica di due avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate aveva contestato ad una società immobiliare maggiori ricavi ai fini IRES e IRAP, per gli anni 2013 e 2014, in applicazione della disciplina delle società non operative (c.d. “di comodo”) ex art. 30 della L. 724/1994. Avverso gli avvisi di accertamento la società proponeva ricorso dinanzi alla CTP di Asti, invocando la disapplicazione della normativa antielusiva per la presenza di impedimenti oggettivi che avevano reso impossibile il conseguimento dei ricavi contestati. La CTP, ritenendo non provata la sussistenza delle cause oggettive richieste dalla legge, respingeva il ricorso. La società impugnava la decisione di primo grado dinanzi alla CTR del Piemonte che invece accoglieva le doglianze della contribuente, ritenendo valide le giustificazioni addotte circa la mancata produzione di reddito per circostanze oggettive, non addebitabili all’impresa. In tal senso, riconosceva che la relativa dimostrazione potesse essere fornita anche in sede di giudizio, senza necessità di preventivo interpello. L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione sostenendo l’erronea applicazione, da parte della CTR, della normativa di riferimento, con particolare riguardo alla valenza delle due argomentazioni di merito segnalate ai fini della disapplicazione della disciplina delle società di comodo. La decisione della Cassazione La Corte di cassazione, con l’ordinanza in commento, ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, rinviando la causa alla CTR per nuovo esame. Il primo tema affrontato dalla Suprema Corte riguarda le modalità di assolvimento dell’onere probatorio. La Corte ha chiarito che il ricorso all’interpello disapplicativo non costituisce una condizione di procedibilità, né una limitazione della tutela giurisdizionale del contribuente. In particolare, viene ribadito che il contribuente può discostarsi dalla risposta negativa eventualmente ricevuta in sede di interpello, senza doverla necessariamente impugnare, potendo anche decidere di non attivare tale strumento. In tal caso, la prova può essere fornita direttamente nel giudizio proposto contro l’atto impositivo, senza alcuna preclusione per il contribuente. Ciò posto, la Corte si sofferma quindi sulla natura della prova contraria richiesta al fine di superare la presunzione di non operatività. Sul punto, la Cassazione richiama il consolidato orientamento secondo cui tale onere deve essere inteso non in termini assoluti, quanto piuttosto in termini economici, e pertanto valutato alla luce delle effettive condizioni di mercato. In tal senso, dunque, è escluso che la semplice assenza di pianificazione aziendale o la totale inefficienza gestionale possano essere addotte come “cause oggettive” di non operatività; è invece necessario che il contribuente dimostri che il mancano raggiungimento dei ricavi minimi sia dipeso da fattori esterni e straordinari, che esulano dal proprio controllo. Nel caso di specie, la CTR aveva ritenuto sufficiente la produzione di una perizia che attestasse la fatiscenza degli immobili e le difficoltà amministrative nell’ottenimento delle autorizzazioni necessarie. La Corte di merito, tuttavia, ad avviso della Suprema Corte non ha valutato se tali circostanze integrassero effettivamente le cause oggettive richieste dalla normativa, dimostrando l’esistenza di impedimenti esterni e non dipendenti dalle scelte di gestione. Pertanto, ritenendo necessario un approfondimento istruttorio in merito a tali elementi, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa al giudice di merito per procedere ad un nuovo e motivato esame delle prove addotte dalla società, in conformità ai principi affermati nell’ordinanza. M.A.G.
Con l’ordinanza n. 25992/2025, depositata il 24 settembre 2025, la Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla disciplina delle società “non operative”, con particolare riferimento al tema dell’onere probatorio gravante sul contribuente e alla possibilità di dimostrare in sede di giudizio la sussistenza delle oggettive condizioni che impediscono all’impresa il conseguimento dei ricavi presunti, al fine di disapplicare le penalizzazioni derivanti dalla disciplina di cui all’art. 30, L. 724/1994.