Ai fini della gestione occulta di una società di capitali non c’è distinzione tra interposizione fittizia e reale

29 Dicembre 2023

La Suprema Corte, con la recente Sentenza n. 33457 depositata il 30 novembre 2023, è tornata sul tema della gestione occulta di una società di capitali da parte di persone fisiche legate da vincolo familiare. Al riguardo, ha precisato che ai fini della titolarità dei redditi non rileva la distinzione tra interposizione fittizia e reale sulla base di quanto previsto dall’art. 37 del DPR n. 600/1973. Inoltre, alle persone fisiche possono irrogarsi le sanzioni tributarie in quanto le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite alla loro attività quali effettivi possessori del reddito d’impresa.

Il caso

L’Agenzia delle Entrate di Roma ha emesso un avviso di accertamento per l’anno di imposta 2009 nei confronti della società Homnia Labor S.r.l., società unipersonale e in liquidazione, essendo emersa la partecipazione di detta società ad un disegno criminoso posto in essere da diversi anni con altre imprese del settore edile, al fine di usufruire di c.d. false compensazioni IVA, esponendo in dichiarazione costi con correlati crediti IVA in realtà inesistenti. Tali crediti sarebbero stati pertanto utilizzati indebitamente in compensazione di altri tributi.

Da tale contestazione scaturiva altresì l’emissione degli avvisi di accertamento nei confronti di V. G. e S. Caraffa, quali soci della società che avrebbe controllato la Homnia Labor Srl. Nella prospettazione dell’Ufficio, l’indebita detrazione di IVA da parte di Homnia Labor Srl costituiva il componente di reddito positivo imponibile per i sig.ri Caraffa, i quali erano soci della società Domade Srl che a sua volta deteneva il 50% di Homnia Labor Srl. A nulla rilevava, secondo i verificatori, l’intervenuta cessione nel gennaio 2008 della Homnia Labor Srl in quanto l’acquirente sarebbe un mero prestanome, non in grado di sostenere le conseguenti responsabilità della stessa operazione. Ciò rendeva evidente la continuità della gestione da parte dei sig.ri Caraffa. Inoltre, il carattere di Homnia Labor Srl di società a ristretta base partecipativa, caratterizzata dalla partecipazione attiva e diretta dei soci alle vicende della società implicava la conoscibilità dei sig.ri Caraffa delle operazioni fraudolente contestate.

I contribuenti hanno impugnato gli avvisi di accertamento innanzi alla competente CTP, rilevando in particolare l’impossibilità di ricondurre la relativa fattispecie in un caso di interposizione ai sensi dell’art. 37 del DPR n. 600/1973 e contestando pertanto l’attribuzione di maggiori redditi operata dall’Agenzia delle Entrate. La CTP adita ha respinto i ricorsi con una sentenza che è stata confermata in sede di appello.

I sig.ri Caraffa hanno impugnato la decisione della CTR innanzi alla Suprema Corte, con ricorso affidato a quattro motivi. Per quanto rileva ai fini del presente commento, hanno censurato la sentenza per violazione di legge, in quanto la fattispecie in esame non sarebbe sussumibile nell’alveo dell’interposizione, mancando i presupposti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla specifica disciplina. E ciò in ragione delle seguenti circostanze di fatto: i sig.ri Caraffa non fossero mai stati attinti da alcun procedimento penale, la società Domade Srl avesse già ceduto a gennaio del 2008 le partecipazioni detenute nella Homnia Labor Srl, dalla documentazione prodotta non fosse desumibile alcun collegamento dei Caraffa con la Homnia Labor e il suo nuovo socio, tesi avallata anche dalla messa in liquidazione nel 2010 della stessa Homnia Labor Srl.

La questione dell’interposizione involge altresì la tematica delle sanzioni irrogate a carico dei sig.ri Caraffa, sanzioni che nella prospettazione dei ricorrenti devono invece riferirsi alla (sola) società Homnia Labor Srl.

La decisione

La Corte di cassazione con la sentenza in commento ha rigettato il ricorso proposto dai sig.ri Caraffa con conseguente condanna alle spese di giudizio.

Con riferimento ai redditi, la Cassazione ha richiamato il disposto di cui all’art. 37, comma 3 del DPR n. 600/1973, secondo cui: “In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quanto sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, previse e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”. L’Amministrazione finanziaria può quindi accertare il fatto costitutivo dell’interposizione tributaria in relazione all’effettivo possesso di un reddito per interposta persona.

Spiega la Corte che, con riferimento all’onere probatorio, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità[1]. Inoltre, l’Ufficio è tenuto a dimostrare che il contribuente sia l’effettivo possessore dei redditi per interposta persona, senza far riferimento a tutti gli elementi costitutivi dell’interposizione, in modo da evitare che lo stesso contribuente possa sottrarsi all’imposizione occultando la sua reale identità. “La rilevanza dell’effettivo possesso del reddito rispetto alla titolarità formale sancisce la prevalenza della sostanza sulla forma e della realtà sull’apparenza, dovendosi individuare non la natura fittizia o ingannevole della titolarità del reddito, bensì l’effettività dell’esercizio del possesso del reddito a prescindere dalla sua formale titolarità[2].

Il ruolo dell’amministratore di fatto, nel caso delle società di capitali, deve ritenersi centrale nell’interposizione, posto che deve essere tale da comportare la traslazione del reddito realizzato dall’ente collettivo interposto al soggetto interponente, come se fosse stato prodotto da quest’ultimo. In altri termini, l’interponente non è un mero gestore dell’ente collettivo, ma il soggetto che effettivamente disponga delle risorse del soggetto interposto.

Sostiene quindi la Cassazione che non ha rilievo a tal proposito la dimostrazione che l’interposizione sia reale o fittizia, “l’art. 37, comma 3 DPR n. 600/1973 si riferisce a qualsiasi ipotesi di interposizione, anche a quella reale, ed anche ad un uso improprio di un legittimo strumento giuridico[3].

Con riferimento alle sanzioni, la Suprema Corte ha evidenziato come, nel confronti del soggetto che abbia gestito uti dominus una società di capitali, si determini la traslazione del reddito d’impresa e delle relative imposte, sicché risultando il reddito come se fosse da lui prodotto, non può invocarsi – in materia sanzionatoria – la norma di cui all’art. 7 del DL 269/2003 in quanto le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite alla sua attività quale effettivo possessore del reddito d’impresa[4].

Così delineata la cornice normativa, con riferimento al caso in esame la Cassazione ha sostenuto che – trattandosi di una società di capitali a ristretta base sociale – possa ritenersi desunto, quale elemento presuntivo grave, preciso e concordante, il fatto ignoto dell’effettiva gestione uti dominus della società interposta e dunque del possesso dei proventi illeciti per traslazione in capo ai contribuenti.


[1] Cass. n. 123807/2019, n. 4168/2018, n. 17833/2017, n. 25129/2016 e SSUU n. 9961/1996.

[2] Cass. n. 5276/2022.

[3] Cass. n. 11055/2021 e n. 17128/2018.

[4] Cass. n. 1358/2023.

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