Le Sezioni Unite chiariscono definitivamente la nozione di “caso d’uso” ai fini del registro

27 Marzo 2023

Con la recente sentenza del 16 marzo 2023, n. 7682 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha definitivamente chiarito che non integra “caso d’uso” la produzione in giudizio di un atto ai fini dell’assolvimento degli oneri probatori previsti dal rito processuale applicabile. Nell’occasione, la Suprema Corte ha inoltre precisato che la ricognizione di debito, quando abbia carattere meramente dichiarativo di una data situazione giuridica, non incerta, preesistente alla stessa scrittura, è soggetta ad imposta di registro in misura fissa (Euro 200,00) solo in caso d’uso.

Il caso

La vicenda origina da un avviso di liquidazione, notificato ad un contribuente che aveva ottenuto dal Tribunale civile un decreto ingiuntivo per il pagamento di una somma da restituire a fronte di un prestito tra privati. Il decreto ingiuntivo si fondava su un assegno rilasciato dal mutuatario, rimasto insoluto, assegno prodotto nel giudizio unitamente, a meri fini probatori e senza enunciarla all’interno del ricorso per decreto ingiuntivo, ad una nota di accompagnamento all’assegno - qualificata come ricognizione di debito – con cui il debitore aveva dettagliato le ragioni di rilascio del titolo di credito, riconducendolo al predetto rapporto di mutuo infruttifero. Il decreto ingiuntivo, una volta ottenuto, era stato ritualmente registrato dal contribuente, in ossequio a quanto stabilito dall’art. 8 del d.P.R. 131/1986 (“TUR”). Sennonché, con il precitato avviso di liquidazione l’Agenzia delle Entrate richiedeva l’assolvimento dell’imposta di registro sulla predetta scrittura privata ricognitiva, affermandone inizialmente la natura di atto soggetto a registrazione in termine fisso con aliquota al 3% ai sensi dell’art. 9 della Tariffa parte I allegata al TUR (“atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”); successivamente, all’esito della fase precontenziosa di reclamo/mediazione ex art. 17-bis del d.lgs. 546/1992, l’Ufficio aveva ridotto la pretesa impositiva, ritenendo dovuta l’imposta di registro nella mera misura del 1%, in virtù dell’applicabilità, nella fattispecie in esame, dell’art. 3, della Tariffa parte I (che prevede l’imposizione proporzionale nell’1% sugli “atti di natura dichiarativa relativi a beni o rapporti di qualsiasi natura”), dovendo ritenersi integrato il “caso d’uso” in virtù della produzione in giudizio della predetta ricognizione di debito.

All’esito dell’impugnazione dell’avviso di liquidazione, i gradi di merito si concludevano con la soccombenza del contribuente, a cui faceva seguito la proposizione del ricorso per Cassazione. La Suprema Corte, con Ordinanza interlocutoria n. 33313/2021, ha ritenuto di rimettere gli atti al Primo Presidente della Corte, che ne ha disposto l’assegnazione alle Sezioni Unite. Ciò trattandosi di controversia connaturata da una questione di particolare importanza circa la nozione di deposito in caso d’uso e rilevati ben tre orientamenti giurisprudenziali difformi sulla materia della tassazione, ai fini del registro, della ricognizione di debito.

La pronuncia

Le Sezioni Unite, investite delle questioni controverse, hanno ritenuto di definire in via prioritaria la nozione di “caso d’uso”. La norma di riferimento al riguardo è l’art. 6 TUR il quale prevede che “(s)i ha caso d'uso quando un atto si deposita, per essere acquisito agli atti, presso le cancellerie giudiziarie nell'esplicazione di attività amministrative o presso le amministrazioni dello Stato o degli enti pubblici territoriali e i rispettivi organi di controllo, salvo che il deposito avvenga ai fini dell'adempimento di un'obbligazione delle suddette amministrazioni, enti o organo ovvero sia obbligatorio per legge o per regolamento”. La Corte osserva che la norma in analisi (già replicativa dell’art. 6 del d.P.R. 634/1972) segna una cesura netta con la prima normativa emanata in tema di imposta di registro, il R.D. 3269/1923, il quale all’art. 2 prevedeva che ricorresse caso d’uso, tra l’altro, “quando gli atti si presentano o si producono in giudizio davanti l'autorità giudiziaria ordinaria”. Non essendo stata replicata tale evenienza nella disposizione in vigore, quale presupposto di integrazione del caso d’uso, è evidente che il legislatore non abbia inteso ricomprendere il deposito, a meri fini probatori, tra le ipotesi del caso d’uso (il quale ricorrerebbe, come da tenore letterale della disposizione, solo nel caso di deposito dell’atto presso le cancellerie giudiziarie nell’esplicazione di attività amministrative). Una tale conclusione, d’altronde, è coerente con la tutela del diritto di difesa ex art. 24 Cost., giacché altrimenti tale diritto fondamentale potrebbe subire una compressione in virtù della “imposizione fiscale derivante dall’applicazione dell’imposta di registro sul deposito dell’atto funzionale al conseguimento per l’interessato di fini giuridici ed operativi”.

Chiarita la nozione di caso d’uso, la Corte si è concentrata sul profilo della tassazione della ricognizione di debito, rilevando, come anticipato, ben tre filoni giurisprudenziali contrastanti sulla questione:

  • La prima tesi ritiene che l’istituto debba farsi rientrare nell’ambito dell’art. 9 della Tariffa parte I, che assoggetta ad imposizione in termine fisso proporzionale nella misura del 3% gli “atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”;
  • La seconda tesi ritiene applicabile l’art. 3, della Tariffa parte I, alla stregua di quanto fatto dall’Ufficio nella fattispecie concreta;
  • La terza impostazione ritiene che la ricognizione di debito debba farsi rientrare nell’alveo dell’art. 4 della Tariffa parte II, secondo cui, sono assoggettate, in caso d'uso, ad imposta di registro in misura fissa, per quanto qui rileva, le scritture private non autenticate non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale.

La soluzione del contrasto giurisprudenziale – sostengono le SSUU – deve partire da un’analisi della natura della ricognizione di debito quale atto di natura dichiarativa. Infatti, nel genus degli atti di natura dichiarativa, sono ravvisabili tre categorie:

  1. Atti o negozi dichiarativi riferibili a fattispecie nelle quali, come nella divisione, si abbia per effetto del negozio dichiarativo una modificazione della situazione giuridica preesistente;
  2. Atti o negozi ricognitivi finalizzati a manifestare la consapevolezza in ordine ad una data situazione giuridica, non incerta, preesistente all’atto ricognitivo;
  3. Atti o negozi di accertamento la cui funzione sia quella di rimuovere un’oggettiva situazione d’incerta riconosciuta dalle parti.

La ricognizione di debito, allorché sia finalizzata a riaffermare un rapporto obbligatorio preesistente, sul quale non vi è incertezza, si inquadra nella categoria sub b). Non scaturendo da essa alcun effetto reale o obbligatorio, né avendo un autonomo rilievo patrimoniale (e derivandone solo l’agevolazione per il creditore sul piano dell’onere della prova), le Sezioni Unite hanno ritenuto di aderire al terzo orientamento tra quelli esposti; per l’effetto, la ricognizione di debito contenuta in una scrittura privata non autenticata deve essere ricondotta, ai fini dell’imposta di registro, all’art. 4 della Tariffa parte II.

All’esito delle illustrate considerazioni, la Corte di Cassazione ha quindi enunciato i seguenti principi di diritto: “Il deposito di documento a fini probatori in procedimento contenzioso non costituisce <caso d'uso> in relazione al D.P.R. n. 131/1986, art. 6” e “La scrittura privata non autenticata di ricognizione di debito che, come tale, abbia carattere meramente ricognitivo di situazione debitoria certa, non avendo per oggetto prestazione a contenuto patrimoniale, è soggetta ad imposta di registro in misura fissa solo in caso d'uso”.

A.P.

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