Riforma della giustizia tributaria: la prova testimoniale e il riparto dell’onere probatorio

24 Ottobre 2022

La Legge 31 agosto 2022, n. 130 ha apportato sensibili modifiche all’art. 7 del d.lgs. 546/1992, recante la disciplina probatoria del processo tributario. La riforma ha accolto le istanze dell’utenza, che da decenni chiedeva l’eliminazione del divieto di prova testimoniale e, per effetto del nuovo comma 5-bis, sono state introdotte nuove regole di riparto della prova, sulla cui concreta operatività vi è acceso dibattito in dottrina.

La testimonianza nel nuovo processo tributario

Nell’impianto normativo pre-riforma, il comma 4 dell’art. 7 del D.lgs. 546/92 conteneva una preclusione assoluta all’esperimento di due tradizionali mezzi di prova previsti invece dalla disciplina processual-civilistica: il giuramento e la prova testimoniale. Per effetto delle innovazioni apportate dalla Legge 130/2022 la norma prescrive ora che:

Non è ammesso il giuramento. La corte di giustizia tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l'accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all'articolo 257-bis del codice di procedura civile. Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale”.

Dall’analisi del dettato normativo è possibile enucleare i presupposti di esperimento e le caratteristiche del nuovo mezzo di prova:

  • La valutazione di rilevanza della deposizione da parte del giudice;
  • La forma scritta della testimonianza;
  • L’inidoneità della testimonianza ad inficiare quanto è coperto da fede pubblica.

La valutazione di rilevanza (rectius, necessarietà) è il presupposto di esperimento in base al quale si richiede, in prima istanza, che l’oggetto della testimonianza verta su questioni inerenti alla controversia. Nel disegno di legge di iniziativa governativa sul cui schema è stata approvata la Legge, la necessarietà era accompagnata dall’aggettivo “assoluta”. Pur essendo stato eliminato tale connotato descrittivo, l’attuale formulazione della norma fa perdurare l’impressione che, nell’intento del legislatore, questo mezzo di prova dovrebbe essere postergato rispetto agli altri, ove questi siano disponibili, e dovrebbe essere ammesso solo quando le risultanze scaturenti dal suo esperimento non siano sovrabbondanti e non potrebbero essere ottenute altrimenti.

Soltanto la prassi applicativa potrà dare contezza di quanto questo requisito verrà interpretato rigidamente dalla nuova magistratura tributaria. Nondimeno, per presagirne l’operatività può essere utile considerare che la medesima formula è contenuta nell’art. 58 del D.lgs. 546/92, norma che disciplina l’introduzione di nuove prove in appello. Tale prerogativa, infatti, non trova tendenzialmente limiti a livello pratico (la parte non deve neppure dimostrare l’impossibilità della mancata produzione in primo grado), potendo tale condotta rilevare solo ai fini della regolamentazione delle spese di lite, nella quale sono ricomprese, ex art. 15 del medesimo d.lgs., quelle determinate dalla violazione del dovere processuale di lealtà e probità (cfr. Cass. 8927/2018).

Per quanto concerne la forma scritta, la norma richiama espressamente l’art. 257-bis c.p.c., il quale prevede un modello di testimonianza che, rispetto alla disciplina ordinaria, deroga al carattere dell’oralità (carattere che, nel modello tradizionale di tale mezzo di prova, è posto a presidio di esigenze processuali fondamentali quali il contraddittorio e la valutazione di attendibilità del testimone).

In sede di processo civile, la rinuncia ai presidi di oralità, contraddittorio e valutazione di attendibilità è ritenuta “accettabile” giacché sull’esperimento di tale mezzo deve necessariamente intervenire il previo comune assenso delle parti. Al contrario, nel nuovo processo tributario la testimonianza scritta potrà essere acquisita in difetto di accordo delle parti, il che necessariamente postula, per la parte contro cui è resa la deposizione testimoniale, la rinuncia ad un controesame del testimone sugli stessi fatti e quindi una rinuncia al contraddittorio.

Si osserva inoltre che il rinvio all’art. 257bis equivale anche ad un rinvio al procedimento ivi indicato per l’assunzione della testimonianza. La deposizione avverrà su un modello predisposto dal ministero, che lo stesso testimone dovrà poi autonomamente consegnare alla commissione tributaria. Discussa, in questa prima fase, è la possibilità di applicare l’ultimo comma dell’art. 257bis, che afferma “Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato”. Considerando la preclusione alla testimonianza orale da parte del legislatore, potrebbe non risultare conforme alla ratio dell’intervento riformatore la possibilità di esperire una escussione orale ove sussista la necessità di approfondire le risposte date nel questionario.

Infine, per quanto concerne l’oggetto della testimonianza, la norma esclude che essa possa vertere su quanto è coperto da fede pubblica. Tale limitazione è fisiologica, giacchè comune a qualsivoglia modello di testimonianza previsto dall’ordinamento e preserva l’ambito di operatività dell’istituto della querela di falso.

Il riparto dell’onere probatorio

La Legge 130 ha introdotto all’art. 7 il nuovo comma 5-bis, recante una nuova regola di riparto dell’onere probatorio. La norma recita:

L'amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.

Come anticipato, l’introduzione di questo comma ha sollevato molteplici dubbi nell’utenza, in considerazione del fatto che il disposto normativo appare totalmente in linea con la regola generale in tema di riparto dell’onere probatorio nel processo, l’art. 2697 c.c.; sicché, ad una prima lettura, la norma potrebbe apparire superflua e sovrabbondante.

Nondimeno, autorevoli commentatori[1] hanno fatto notare come la norma sia funzionale a “correggere” alcuni orientamenti giurisprudenziali che, in relazione a determinate fattispecie, hanno modulato differentemente l’onere probatorio, sbilanciandolo a svantaggio del contribuente, attore formale del giudizio tributario ma invero convenuto sostanziale, almeno nelle controversie in cui oggetto del giudizio è la pretesa impositiva e non un rimborso.

L’esempio più emblematico è rappresentato dall’orientamento in tema di oneri deducibili in materia di reddito d’impresa. La Corte di Cassazione ha infatti a più riprese affermato che nella determinazione del reddito d’impresa l’onere di provare la sussistenza delle componenti del reddito incombe sull’amministrazione finanziaria per quelle positive e sul contribuente per quelle negative. La nuova norma – secondo alcuni – dovrebbe pertanto arginare tale impostazione, imputando all’Ufficio la prova di tutti gli elementi costitutivi del maggiore imponibile, ivi compresi quegli oneri negativi che contribuiscono alla determinazione unitaria di ciascuna categoria reddituale.

Un’ulteriore interpretazione della norma pone l’accento sulla previsione normativa di annullamento dell’atto impositivo ove questo non sia corredato da una prova che rispetti i canoni indicati dal nuovo comma 5-bis. L’attenzione posta al ruolo del giudicante (il quale, nelle situazioni descritte, deve disporre l’annullamento dell’atto) può indurre a ritenere censurabili fenomeni nei quali, attestata l’illegittimità dell’atto emesso dall’Ufficio, il giudice provveda ad un’autonoma rimodulazione del rapporto d’imposta, prescindendo dalle richieste e dalla prova fornita dall’ente. Ciò tenendo conto del c.d. “potere sostitutivo” del giudice tributario esercitato nell’ambito del processo tributario che non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell'atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell'accertamento dell'Ufficio.

In ultima istanza, si ritiene in ogni caso come la nuova disposizione normativa debba applicarsi, relativamente all’onere della prova a carico dell’Ufficio, nei limiti del thema decidendum fissato dal ricorrente con la proposizione del ricorso introduttivo del primo grado di giudizio.

A.P.


[1] Cfr. Deotto-Lovecchio, Al Fisco l’onere della prova per negare costi d’impresa, crediti d’imposta e bonus, in il Sole 24 ore del 17 ottobre 2022.

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