L’appalto di lavoro certificato si sottrae alla riqualificazione unilaterale dell’Agenzia delle Entrate

10 Ottobre 2022

Il contratto di appalto, qualora validato con la procedura di certificazione prevista dall’art. 78, D. Lgs. n. 276/2003, non può essere riqualificato unilateralmente dall’Amministrazione finanziaria in somministrazione illecita di manodopera, dovendo la stessa Amministrazione seguire – al pari di tutti i soggetti terzi rispetto al contratto e delle stesse parti contrattuali – la speciale procedura di contestazione dinanzi al Giudice del Lavoro, prevista dal successivo art. 80, D. Lgs. n. 276/2003, per far dichiarare l’erronea qualificazione del contratto oppure la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. Questo quanto stabilito dalla Corte di Giustizia di II grado dell’Emilia Romagna, Sez. 8, sentenza n. 1115/2022.

Il caso

La Corte di Giustizia Tributaria di II grado, Sez. 8, dell’Emilia Romagna con la sentenza n. 1115, depositata il 3 ottobre 2022, si è pronunciata sulla contestazione di somministrazione illecita di manodopera mediante la simulazione di contratti di appalto non genuini, mossa dall’Agenzia delle Entrate - Direzione provinciale di Modena, ad una società contribuente, con conseguente ripresa a tassazione per IVA e IRAP.

È bene precisare, fin da subito, che la fattispecie esaminata dai giudici tributari ha riguardato una specifica tipologia di contratti di appalto, ovvero quelli sottoposti volontariamente dalle parti del rapporto di lavoro alla speciale procedura di certificazione disciplinata dall’art. 78 del D. Lgs. n. 276/2003.

Nel proporre ricorso la contribuente eccepiva, in via preliminare, che l’Amministrazione procedente non aveva il potere di riqualificare unilateralmente i contratti di appalto certificati, dovendo, come qualunque soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro, contestare l’erronea qualificazione del contratto o la difformità dello schema negoziale rispetto al rapporto effettivamente attuato, avvalendosi della speciale procedura impugnatoria prevista dall’art. 80 del D. Lgs. n. 276/2003.

Nel merito la ricorrente svolgeva ulteriori eccezioni di infondatezza dei rilievi erariali, richiamando anche la pronuncia penale di assolvimento, passata in giudicato, dai reati di cui all’art. 2 della Legge n. 74/2000, con la più ampia formula di “non sussistenza del fatto” a favore del legale rappresentante della società.

L’allora Commissione Tributaria Provinciale di Modena, tuttavia, respingeva l’eccezione preliminare argomentando che tra i poteri della Commissione vi è anche quello di riqualificare il contratto certificato; riteneva poi, nel merito, fondata la contestazione di somministrazione illecita di manodopera ed irrilevanti le conclusioni raggiunte in sede penale, stante il principio di autonomia dei due accertamenti penale e tributario.

La Corte di Giustizia di secondo grado è stata di diverso avviso, preferendo non discostarsi dall’orientamento inaugurato dalla medesima Corte con la sentenza n. 639/2019, sub iudicio di Cassazione, pronunciata per gli stessi fatti e tra le medesime parti in relazione al periodo d’imposta precedente.

La normativa in tema di certificazione del contratto di lavoro

La procedura di certificazione è un istituto dichiaratamente finalizzato alla riduzione del contenzioso sulla qualificazione dei rapporti di lavoro (art. 75 D. Lgs. n. 276/2003) che consiste nella “validazione anticipata” della volontà delle parti interessate all’utilizzazione di una certa tipologia contrattuale e può essere richiesta presso uno degli enti certificatori abilitati (ad esempio, gli Ispettorati territoriali del lavoro per il proprio ambito di competenza; le Province per ambito di competenza provinciale; le Università pubbliche e private; etc).

Nel caso dell’appalto la certificazione ha la finalità, essenzialmente, di delimitare il confine tra l’interposizione illecita di manodopera e l’appalto genuino, sulla base di indici e di codici di comportamento elaborati in sede amministrativa che tengono conto della reale organizzazione produttiva e dell’assunzione effettiva del rischio d’impresa da parte dell’appaltatore.

L’atto di certificazione deve essere motivato e contenere il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere, oltre alla esplicita menzione degli effetti, civili, amministrativi, previdenziali o fiscali, in relazione ai quali le parti richiedono la certificazione.

La contestazione di un contratto di lavoro certificato deve avvenire seguendo la speciale procedura impugnatoria prevista dall’art. 80 del D. Lgs. n. 276/2003, rubricato significativamente “Rimedi esperibili nei confronti della certificazione”. Tale disposizione normativa prevede che le parti e i terzi, nella cui sfera giuridica l’atto stesso è destinato a produrre effetti, possano proporre ricorso presso l’autorità giudiziaria di cui all’articolo 413 c.p.c., ovvero presso il Tribunale in funzione di giudice del lavoro, per (i) erronea qualificazione del contratto, oppure (ii) difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, nonché – limitatamente alle sole parti del contratto – anche per (iii) far valere i vizi del consenso dell’atto di certificazione.

Inoltre, il quarto comma della medesima disposizione, con finalità anch’essa deflattiva del contenzioso, prevede l’obbligo - per chiunque voglia presentare ricorso giurisdizionale contro la certificazione - di esperire previamente un tentativo obbligatorio di conciliazione avanti alla stessa commissione di certificazione che ha rilasciato la validazione.

La pronuncia

La Corte di secondo grado ha ritenuto che l’eccezione preliminare sollevata dalla società ricorrente meritasse accoglimento, giacché è espressamente previsto che gli effetti giuridici – civili, amministrativi, previdenziali o fiscali – dell’atto di certificazione del contratto di lavoro permangano “anche verso i terzi” fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali previsti dall’art. 80 del D. Lgs. n. 276/2003.

Tra i soggetti “terzi” vanno ricompresi, secondo la totalità della dottrina, tutte le pubbliche amministrazioni e anche gli enti impositori, e quindi pure l’Amministrazione finanziaria, che ha l’obbligo di impugnare la certificazione davanti al Giudice del Lavoro.

Per l’appalto certificato è esclusa in radice, dunque, la possibilità per l’Ufficio di sindacare direttamente la qualificazione giuridica del contratto riqualificandolo in somministrazione illecita di manodopera, perché così facendo si consentirebbe allo stesso soggetto terzo, nei cui confronti la certificazione è destinata a produrre effetti, di disconoscere la validità della certificazione rilasciata dalla competente commissione di certificazione.

Ciò comporterebbe l’inammissibile svuotamento di significato della certificazione e degli effetti che dispiega verso i terzi, anche perché verrebbe annullata qualsiasi differenza tra contratti certificati e non certificati, con conseguente frustrazione della ratio dell’istituto di deflazionare i contenziosi relativi alla corretta qualificazione dei rapporti di lavoro.

Ma il punto focale della decisione è, in realtà, anche un altro.

La Corte Tributaria dell’Emilia Romagna ha voluto ribadire, in via generale, l’esclusiva competenza del Giudice del Lavoro (“l’autorità giudiziaria di cui all'articolo 413 del c.p.c.”) a decidere sulle contestazioni di erronea qualificazione o difformità dallo schema negoziale relative a contratti di lavoro certificati, siccome disciplinati – anche sotto il profilo del procedimento impugnatorio – da una normativa successiva e speciale (la c.d. Legge Biagi), che non può venire derogata adducendo il “generale potere della Corte Tributaria di risolvere incidentalmente le questioni da cui dipende la decisione sulla controversia tributaria”, ex art. 2, co. 3, D. Lgs. n. 546/1992.

Per i giudici, infatti, ove si accedesse ad una diversa conclusione, non si avrebbe tanto la soluzione “incidentale” di una questione logicamente preliminare, quanto la “soppressione di una procedura impugnatoria prevista dalla legge”.

Infine, pur dichiarando assorbiti gli ulteriori motivi di merito, sembra che la Corte di secondo grado abbia voluto comunque redarguire i primi giudici per non aver considerato che “all’esito di un’articolata motivazione” il giudice penale ha ritenuto non sussistente alcun fenomeno di somministrazione illecita di mano d’opera, e che la sentenza di assoluzione penale “pur non comportando l’automatico annullamento dell’accertamento, va comunque valutata dal giudice, poiché i provvedimenti costituiscono un elemento di prova al pari di altri sui quali fondare il proprio convincimento”.

Altrettanto argomentata la decisione in punto di spese di lite che, pur rilevando la sostanziale novità della questione trattata, ha comportato la compensazione solo della “metà delle spese di lite”, ponendo l’altra metà a carico dell’Ufficio soccombente per il doppio grado di giudizio.

Conclusioni

La decisione della Corte Tributaria non sembra censurabile nel suo percorso logico-giuridico.

Entrambe le statuizioni – sia quella relativa alla prevalenza dello speciale procedimento impugnatorio previsto dal D. Lgs. n. 276/2003, sia quella che ristabilisce la posizione dell’Amministrazione finanziaria come “terzo soggetto” destinatario degli effetti giuridici dell’atto di certificazione –  appaiono, infatti, pienamente attuative dei principi del “giusto processo” e della “parità tra le parti” sanciti a livello costituzionale dall’art. 111 Cost., a tenore del quale “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” e “ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale”.

S.L.

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