La dimora abituale viene meno in caso di assenza ripetuta dalla propria abitazione?

6 Luglio 2021

Abstract

L’ordinanza della sezione civile della Corte di Cassazione n. 3841 del 15 febbraio 2021 in commento, sul solco del consolidato insegnamento dei giudici del Palazzaccio e con una precisazione affatto scontata, ha affermato che ai fini dell’iscrizione anagrafica delle persone fisiche nelle liste dei residenti in un determinato Comune, nonché della sua conservazione, l’abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, per la cui sussistenza occorre verificare ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. n. 223/1989 sia l’elemento oggettivo della “permanenza” sia quello soggettivo della “intenzione di abitarvi stabilmente”, non viene meno a causa dell’esistenza di una pluralità di centri di interesse personali, dello svolgimento della prestazione lavorativa con modalità alternative (ad esempio, come lo smart working) o della possibilità di spostarsi celermente e agevolmente presso altre località, purché il soggetto faccia ritorno presso la propria abitazione abitualmente e in modo sistematico una volta assolti i propri impegni, e vi mantenga il centro delle proprie relazioni familiari e sociali.

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Si tratta di una decisione importante perché il principio di diritto in essa statuito fornisce delle importanti linee guida anche in tema di residenza fiscale delle persone fisiche ai sensi dell’art. 2, comma 2, del TUIR, che richiama per l’appunto la “residenza ai sensi del codice civile” (i.e. dell’art. 43 c.c.), con riflessi poi particolarmente rilevanti sull’attuale disciplina dell’art. 24-bis del d.P.R. n. 917/1986 (“TUIR”), aggiunto dall’art. 1, c. 152, della L. 11 dicembre 2016, n. 232, che ha introdotto un regime opzionale di imposizione sostitutiva per i nuovi residenti (“Regime Nuovi Residenti”).

La vicenda sottoposta ai Giudici concerneva la richiesta di iscrizione nelle liste anagrafiche di un Comune, nota meta turistica invernale, negata dall’Ente comunale con un provvedimento amministrativo impugnato dalla richiedente nanti il Tribunale di Torino, il quale, nell’accogliere il ricorso, affermava il (discutibile) principio secondo cui esiste un diritto assoluto di ogni cittadino all’iscrizione nelle liste elettorali comunali a prescindere dal requisito della dimora abituale. La decisione veniva riformata dalla Corte d’Appello secondo cui, correttamente, l’accertamento del diritto di fissare liberamente la propria residenza non può prescindere dalla verifica dell’esistenza del requisito della dimora abituale richiesto dall’art. 19 del d.P.R. n. 223/1989.

Sulla questione la Sez. Civile, ribadendo il costante orientamento della stessa Corte, ha affermato che secondo la previsione dell’art. 43 c.c. la nozione di residenza di una persona fisica, rilevante non solo ai fini della sua conservazione ma anche della “prima” richiesta di iscrizione nelle liste anagrafiche, è determinata dall’abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, caratterizzata dalla compresenza dei seguenti due elementi:

  • l’elemento oggettivo, consistente nella permanenza in tale luogo per un periodo prolungato apprezzabile, anche se non necessariamente prevalente sotto un profilo quantitativo; e
  • l’elemento soggettivo, rappresentato dall’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari, affettive.

L’ “apprezzabilità” della permanenza, come si evince chiaramente dal decisum degli Ermellini, non è ancorata al fattore temporale della “durata” del periodo di permanenza nel luogo prescelto per fissarvi la residenza, ma è invero strettamente connessa all’elemento squisitamente soggettivo, considerato dirimente dai Giudici, dell’“intenzione” di stabilirsi in quel luogo in modo non temporaneo, rivelata dalle consuetudini di vita adottate e dalle relazioni affettive e sociali instaurate, o instaurande, in loco.

Una volta integrati questi due elementi, quand’anche il soggetto si allontani dalla propria dimora per periodi temporanei, anche significativi, per attendere ad esigenze lavorative, di studio o personali, non verrà meno l’abitualità della dimora purché il soggetto vi faccia ritorno abitualmente e in modo sistematico, una volta assolti i predetti impegni, e vi conservi le proprie relazioni affettive e sociali (Cass. Civ., Sez. II, 14 marzo 1986, n. 1738). Con questa fondamentale precisazione i Giudici hanno implicitamente ribadito il consolidato principio dell'unicità del domicilio, ai cui fini ciò che conta, non è la presenza continuativa in un luogo, quanto la volontà di rimanervi e ritornarvi appena possibile (“animus revertendi”) e di mantenervi le proprie relazioni familiari e sociali.

Quanto agli aspetti strettamente procedimentali della verifica della sussistenza del requisito della dimora abituale ai sensi dell’art. 19 del d. P.R. n. 223/1989, per i Giudici detta verifica spetta all’Ente comunale al quale è stata presentata la richiesta di iscrizione nelle liste anagrafiche, che dovrà effettuarla con modalità non previamente concordate (in modo da non frustrare la ratio della norma sottesa a prevenire possibili forme di abuso consistenti nel beneficiare di agevolazioni economiche e fiscali derivanti dalla fissazione della residenza in un determinato luogo), ma che si concilino, in virtù del principio di leale collaborazione tra soggetto pubblico e privato, con l’esigenza di ogni cittadino di assolvere quotidianamente ai propri impegni lavorativi e personali, il quale sarà onerato di indicare e motivare specificamente all’organo controllore i periodi in cui sarà certa la sua assenza dalla propria residenza, consentendo la concentrazione dei controlli “a sorpresa” nei periodi residui.

S.L.

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